I primi giorni di permanenza a Bologna trascorsero nel segno della continuità. La vita del convento era in tutto e per tutto simile a quella che avevano lasciato a Napoli. Anche qui, di sera, frà Giordano riusciva a trovare il tempo per leggere i suoi amati libri ed anche per continuare a scrivere il libro che aveva cominciato da qualche settimana a Napoli.
Si trattava di un testo in cui combinava le sue conoscenze astrologiche e delle Sacre Scritture, e col quale intendeva dimostrare che nell’Universo ogni creatura ha una propria missione ed un proprio posto preciso, e che tale disposizione non può essere alterata senza nuocere all’ordine cosmico. Proprio in quei giorni aveva trovato il titolo per quest’opera; le ore trascorse in ginocchio davanti all’arca di S. Domenico, infatti, gli avevano suggerito di ambientare la sua opera all’interno dell’arca costruita dal Patriarca Noè e descrivendo il suo impegno nel trovare la giusta collocazione ad ogni animale che doveva ospitare: L’arca di Noè era proprio un titolo appropriato.
Di domenica veniva consentito ai monaci di uscire dal convento e, quell’8 agosto, anche ai tre napoletani fu consentito di lasciare, per qualche ora, le loro preghiere. Il priore affidò i tre confratelli a frà Agostino da Montalcino che, come loro, stava trascorrendo quei giorni in meditazione.
“Avete un progetto comune, figlioli” disse loro padre Fulgenzio, “… è giusto che vi conosciate un po’ di più. Inoltre frà Agostino conosce bene la città e può farvela apprezzare al meglio.”
I quattro giovani monaci uscirono subito dopo le funzioni dell’ora sesta e fecero la conoscenza della città.
Il più contento fu proprio frà Giordano che restò estasiato al cospetto della struttura architettonica di quella città così diversa sia da Nola che da Napoli.
“Che strano quest’uso così sovrabbondante di portici!” esclamò il Nolano.
“Meno di quello che pensi, frà Giordano.” rispose frà Agostino; il quale, dopo aver sottolineato la simmetria tra la loro larghezza e la loro altezza che permetteva anche a due uomini a cavallo di percorrerli, ne motivò l’uso con la necessità di muoversi più comodamente in un luogo dove pioveva per larga parte dell’anno e, dove, la neve d’inverno rendeva ancora più difficoltoso l’attraversarla.
Ma anche le meravigliose chiese, e su tutte la monumentale Basilica di S. Petronio e le sette chiese, uno strano complesso di templi e cappelle collegate tra loro, le tante torri e torresotti che minacciosamente fendevano il cielo e i tanti palazzi signorili, affascinarono frà Giordano.
In particolare i giovani napoletani furono colpiti da due torri che si ergevano oblique l’una vicina all’altra, “Come possono reggersi in piedi? Sembra un miracolo!” esclamò frà Angelo.
“È veramente uno spettacolo meraviglioso, ma non è un miracolo,” affermò Bruno, “… se le osservi da lontano ti rendi conto che il loro baricentro cade comunque all’interno delle mura perimetrali. È per questo che si reggono in piedi.”
“E non sono le uniche!” disse frà Agostino, “A Pisa ce n’è una, molto più bella di queste, tutta in marmo bianco, che pende anche di più.”
Che meraviglia che dev’essere! mormorò tra sé e sé frà Bruno.
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